Il filo ritrovato / da Van Gogh a De Martino-KP3.1.1.
- Nunzio De Martino
- 13 gen
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 14 feb
Può succedere che immagini di opere d’arte scompaiono, fotografie che hanno documentato il lavoro degli artisti sono ritrovate dopo; opere realizzate che sono perse o distrutte, ritrovate casualmente e non sapendo che storia esse nascondino.
La conoscenza della storia dell’arte parte anche da questi eventi e dalla ricerca e recupero delle cose perdute, dalla loro comprensione e diventano fondamentali per una lettura attenta delle opere racchiuse nei musei. E’ un filo ritrovato che lega la narrazione, la storia e il riconoscimento di un’opera o di un ciclo di lavoro dell’artista.
Un quaderno di disegni attribuito a Vincent van Gogh e ritrovato in epoca moderna, riapre un dialogo acceso sui suoi disegni e sul suo lavoro. Pone delle nuove basi per studi e per comprendere la materia dell’opera, in questo caso hanno studiato il tipo di carta e l’inchiostro usato, il tutto può sembrare come una caccia al tesoro in ambito artistico.
Parlare di arte contemporanea è inscindibile con il passato, gli artisti contemporanei osservano assorbono quello che è stato realizzato e quello che scoprono diventa un substrato attivo come un tessuto su cui è trascritto il fare estetico.
Il disegno è punto forte di partenza e in questa circolarità tra passato e presente si configura l’inserimento del medium del filo, usato in modo diverso.
Il filo è forte quanto il segno della grafite sulla carta di disegni, perché “sacrifica”, in modo illusorio, la sua struttura per realizzare un disegno pittorico. Il disegno di Vincent van Gogh è la traccia, è la speleologia nelle profondità umorali e la mano cerca di raggiungere nel disegnare quello che vede.
L’inchiostro di Vincent scivolava sulla carta con penne o colava da cannucce; il filo si aggrappa alla carta o al tessuto, ribalta il fronte e il dietro forando senza infliggere nessun dolore, ma realizza cromie sottili e cangianti. Filo e matita sono entrambi elementi che “segnano” e “tracciano”, decostruendo l’opera e se ne comprende la materia estetica intrinseca a essa.
L’artista determina il lavoro o meglio decide cosa decostruire mentalmente e ricostruisce nell’opera. Vincent van Gogh si pronunciava dicendo: “È lavorare attraverso un invisibile muro di ferro che sembra separare ciò che si sente da ciò che si è in grado di fare. È necessario indebolire questo muro, erodendolo a poco a poco con costanza e pazienza”.
Questo termine “indebolire” che usa Vincent per scalfire una materia, riporta alla mente a un altro molto simile, che è di “scavare” una materia compatta come la terra.
Lo disse Maria Lai, parlando del lavoro degli artisti; è scendere in una caverna immaginaria e rimanere lì sotto, in una miniera profonda e scavare da sola. Lei non sapeva cosa cercare, ma era certa che doveva scavare. Allieva di Arturo Martini apprese l’insegnamento di lavorare con materiali inusuali, per trovare nuove frontiere nella scultura.
Un materiale apparentemente insolito è allora il filo, relegato nello scompartimento per la realizzazione di oggetti d’artigianato o di design, è per l’artista una nuova determinazione costruttiva.
Le fattezze formali delle opere diventano movibili, fluttuanti e le mani modificano la materia cruda, l’artista diventa un tutt’uno con l’opera.
E’ interessante citare l’opera performativa “Legarsi alla montagna” della Lai, a differenza della restante produzione artistica che è una continuazione di altri artisti dell’epoca che sperimentavano con il filo.
Maria Lai decise di legare tutti gli abitanti del paese, tutte le porte, le vie e le case con circa 27 km di nastri di stoffa celeste. Si chiama “Legarsi alla montagna”; è interessante l’aspetto concettuale dell’opera e risulta la prima azione d’arte relazionale col il mondo.
La relazione con la montagna, persone e luogo di vita è così formalmente visibile e rinforzata dalla metaforica connotazione che il tessuto, trasformato in filo, corda realmente unisce paesaggio e vita alle persone e non sarebbe stato possibile con un altro medium.
Il medium diventa messaggio estetico quando rafforza sia la sua costruzione formale, che la sua connotazione intrinseca e questo perché il filo ha intrinseco il poter di “legare” elementi e concetti.
Cucire e tessere sono atti alla base di una vita di relazione sociale, sono la trasposizione metaforica di quello che è il pensiero sul corpo umano. Il termine “Textum” è tessuto, stoffa, intreccio, ma è anche trama di un discorso, concatenazione e anche inganno. Tessere una propria tela significa l’accettazione di vivere se stessi verso gli altri.
Le opere di Nunzio De Martino hanno una connotazione di tessiture che si sviluppano nel tempo, rivelando i diversi strati non separati tra loro; la trama è compatta di fili, dove la foratura è invisibile e il peso del filo è intrecciato alla trama, è un’azione metaforica del legame e dello svelamento, in De Martino la connotazione intrinseca del filo è dipingere perché rilascia un segno pittorico. L’opera si manifesta sia guardandola nel dettaglio sia allontanandosi sul lungo campo. Sembra di essere difronte a due opere diverse perché la distanza assume il valore di uscirne fuori e quando ti avvicini, la tua mano penetra la materia del tessuto. KP3.1.1. è l’opera di Nunzio De Martino che opera la frammentazione che si ricompone, l’artista parla di Decostruzione / Ricomposizione. La superficie è ampia (200 x270 cm) il corpo nella sua totalità può entrare nella tela e oltrepassarla attraverso le forature infinitamente piccole e invisibili.
Sappiamo che per alcuni presocratici l’anima corrisponde all’esperienza di un organismo la cui materia è talmente eterea che la sua spiegazione non può essere paragonata all’aria. Il respiro è l’ultima cosa che lascia il corpo.
Per i greci, vi era chiaramente uno stretto rapporto tra l’aria, il vuoto e l’infinito, sia perché l’anima è stata considerata come una particella così eterea che evapora nella morte, o semplicemente perché l’aria è fino all’orizzonte rappresentato per quanto l’occhio può vedere. Questi aspetti sono meglio compresi se si pensa di porre l’arte come ai bordi e che le sue dichiarazioni, perché si affacciano verso l’eccentricità, forniscono gli indizi di ciò che è nascosto.
La cultura occidentale considera il mondo come un insieme d’oggetti, mentre il pensiero cinese intende il mondo come emanazione di un soffio vitale, di un’energia (qi) che si sviluppa su diversi piani di condensazione, più o meno visibili: la roccia è (qi) concentrato, la nuvola è un (qi) rarefatto.
L’etica ricostruttiva nelle opere di Nunzio De Martino si avvicina a quello che la filosofia di Jean- Marc-Ferry individua che nel gesto decostruttivo sono già presenti alcuni elementi ricompositivi e ricostruttivi, che la filosofia contemporanea ha il compito di valorizzare. Ricostruire la ragione è per non arrendersi al diffuso cinismo socio politico; ridare valore alla ricostruzione come categoria della sensibilità del pensiero razionale, riconoscere la vulnerabilità delle persone nelle discussioni.
Il lavoro di Nunzio De Martino è materia, ma anche energia e soffio vitale che è presente con l’imprevisto. La mano è prevaricata all’azione di decostruire e riformulare. Il tessuto è materia morta all’inizio, quando però è scelta dall’artista, assume una vita impressa da quella dualità tra il dentro e il fuori che si connette con l’ambiente sociale e che è silenziato e trasformato da De Martino per essere materia viva ricostruita con sonorità polifoniche.
La storia dell’arte è una demagogia e se mal formulata e non approfondita, deve essere esposta con l’attinenza formale e rasente a una “scientificità” di studio. Nunzio De Martino elabora una lavorazione conoscendo perfettamente la materia e ne riporta una pittura di un disegno cromatico equilibratissimo che ricerca delle deviazioni non definendo i pregressi confini. Appare una concomitanza formale con i lavori di Ghada Amer, che ha sostituito il pennello con l’ago. Pur rappresentando la corporalità femminile della donna, lei dichiara che vuole fare dipinti col filo, non realizzando una competizione pittorica, ma una sfida sulla materia.
De Martino realizza in quella filatura cromatica con l’inspessimento della materia pittorica, arrivando al limite dell’equilibrio tra la superficie e la pittura.
Ghada Amer nelle opere Red and White Lovers del 2002 con acrilico, ricamo e gel su tela ha realizzato quelle cascate antropomorfiche e astratte e lascia il fondale che diventi non solo tela ma superficie trasparente. Nunzio De Martino occlude la trasparenza con la scelta cromatica del fondale di KP3.1.1. E’ notte di opaco terroso, la profondità ambientale è realizzata da cascate di colori per capovolgere il muro e renderlo attraversabile pur essendo “oscuro”. Egli in quest’opera si affaccia facendo respirare la trama a differenza del messaggio ripetuto e criptato nelle opere di Boetti “Ordine e disordine” 1979 e “I vedenti” del 1972-73. Monocromaticità di Boetti che saturano la superficie come un codice illeggibile è soffocante che da pace solo nel cambio impercettibile di alcuni colori.
De Martino sceglie di dividere i colori pur assemblandoli e con un equilibrio misterioso, senza riuscire a comprendere dove è l’inizio e quando si è fermato sul lavoro. Tutto è concitato in un movimento di conoscenza e di capacità di tenere l’ago come un pennello rasentando il dettaglio di una pittura rinascimentale.
La Fiber Art ha seguito un percorso scosceso prima di affermarsi come arte autonoma.
Al limite dell’artigianato negli anni ’80, dove il fatto a mano non è solo una questione pittorica, il concetto dell’artigianato è sdoganato, assume una priorità che guarda al concettuale sotto un’altra veste. Si annulla la differenziazione tra arte maggiore e quella minore, dove si collocava l’artigianato fatto a mano. Le separazioni si assottigliano dopo gli anni ’80, essendoci stato un lavoro museale e di Biennale già dagli anni ‘60. Con l’inaugurazione della Biennale de la Tapisserie di Losanna (1962) e poi tutti gli anni Settanta con mostre importanti quali “Deliberate Entanglements” (1971) avviene il riconoscimento pubblico di linguaggi diversi e soprattutto nell’arte tessile guadagnandosi il nome di Fiber Art.
L’opera di Nunzio De Martino è filare il pensiero, srotolare quello che non sarà mai detto, ma che è nell’opera. Il filo è anche riparazione di quello che è avvenuto, la vita che subisce dei traumi. La tessitura ricostruisce quello che può essersi spezzato e lacerato a questo proposito viene in mente il ragno di J.J. Rousseau che cerca di riparare perché è in grado di auto produrre la sua tela che si allarga ed è capace di ricucire i distaccamenti fino a perdere anche le forze.
Quello che il filo compie in questi artisti non è la caducità del colore del filato, che appare sostenuto in Ghada Amer e che sottende la configurazione di corpi di donne sovrapposte come in un dripping all-over di Pollock.
In Nunzio De Martino l’opera è intensificata nella materia cromatica, come una sovrapposizione di strati su strati, di filanti di diverso colore, dove quello che è importante non è tanto la tecnica, ma il concetto di arte che ne scaturisce.